Sacralità dell’arte e funzione della critica.

Premetto che queste considerazioni nascono da un dialogo pressoché quotidiano con uno studioso laico, il dott. Angelo Schiavone specialista in neurologia, di formazione prevalentemente scientifica, autore del volume «Suggestioni neoteniche in un borgo medioevale» pubblicato recentemente da Telemaco Edizioni – Acerenza nella sua seconda edizione.

Gioacchino da Fiore, teologo della storia del XII secolo, ritiene che l’immaginazione sia ineludibile precondizione per lo sviluppo del pensiero. Il monaco poi sostiene che il pensiero sarebbe rimasto imprigionato nella nostra interiorità  se l’uomo non avesse imparato a codificarlo con un linguaggio socialmente condiviso. L’uomo ha dunque bisogno di partecipare agli altri il proprio vissuto per abbattere le sbarre della solitudine,  prigione che ancor oggi ci ingabbia nella folla alienata del villaggio globale. Gioacchino da Fiore integra l’immagine-parola come  prodotto intuitivo del sistema immaginazione-pensiero, rende l’uomo fecondo di creatività e di comunicazione e lo eleva fino a comprendere il cammino di Dio nella storia evolutiva dell’uomo. Questa é la nobilissima funzione dell’arte sacra.

Non sembri azzardato né inutile l’impegno  di contornare la figura di un eminente protagonista del pensiero medievale con i tratti della modernità rappresentata in maniera efficacissima nell’iconografia del portale, della cripta della Cattedrale di Acerenza, tema qui soltanto enunciato che noi ci accingiamo ad approfondire nel progetto TeU come esempio illustre e tuttora sconosciuto dello sviluppo dell’arte sacra dal Medioevo al Rinascimento sul territorio lucano. Il monaco Gioacchino da Fiore scopriva nella Sacra Scrittura, nel silenzio della Sila, grazie alla preghiera e alla meditazione la dimensione creaturale dell’uomo e nel suo «Liber figurarum» evidenziava la forza comunicativa dell’immagine a supporto delle complesse argomentazioni logiche del linguaggio teologico.

Ed é appunto la fecondità della dimensione creaturale che contiene in germe  (gli spermata dei presocratici) la ricchezza del futuro umanesimo,  dello sviluppo delle scienze e delle arti nel Rinascimento come potenzialità in procinto di tradursi in atto già nel Medioevo sulle teorizzazioni di Tommaso d’Aquino. E appunto la dimensione creaturale  che presuppone la presenza del Creatore accanto alla sua creatura impegnato a rimodellarla sempre in un continuo processo di ottimizzazione. Dio infatti non fu, ma é Creatore. Questa intuizione  consente alla  creatura di comprendersi e riconoscersi quotidianamente accompagnato da Dio sul cammino della perfezione per soddisfare il suo ineludibile bisogno di essere di più.

Del resto l’episodio biblico della torre di Babele non é forse la fedele immagine del disagio dell’uomo contemporaneo ingabbiato nella esasperata complessità della metropoli? A che cosa é dovuto questo disagio profondo se non al fatto che la creatura oggi ha rinunciato alla relazione con il suo Creatore rivendicando la sua indipendenza, al di la di ogni vincolo etico, per dare libero sfogo alla propria volontà di potenza?

L’urlo di Munch non nasce forse dall’insopportabile sofferenza di chi, asfissiato dalla propria volontà di essere di più, si scopre solo ed impotente? Alla base di quel grido disperato c’é la consapevolezza di Kirkegaard che, quando la creatura rifiuta l’amore del proprio Creatore, mette a nudo la propria impotenza e si chiude volontariamente in un labirinto di solitudine e di sofferenza.

Ecco io penso che la funzione dell’arte sacra é quella di decodificare e comprendere questi scenari. Quindi persino l’urlo di Munch attinge alla sacralità dell’arte nel momento in cui facilita nell’uomo la comprensione di se stesso.

Sassure direbbe che l’immaginazione costruisce gli scenari del pensiero e la parola ne evoca i significati. L’artista codifica la comunicazione che il critico va a decodificare. Il critico dunque aiuta il fruitore, chi osserva l’opera d’arte, ad entrare in quel cono di luce che investiva l’artista mentre egli impastava nella dimensione materica i riflessi di quella illuminazione. A questo punto non possiamo non cogliere le suggestioni dello spiritualismo di  Henri Bergson che trova preciso riscontro nella icone sacre della tradizione orientale.

Io credo che parlare di arte sacra all’ombra di una Cattedrale medioevale ci condiziona ad entrare in quel clima di spiritualità e di leggerezza che  trascende il peso del corpo e della materia per elevare lo spirito in una forma di comunione dialogica con Dio. Entrare in Cattedrale dunque significa prendere una scorciatoia che ci consente di uscire dai labirinti della logica e di ogni pretesa di «comprendere» Dio per sperimentare dal vivo una relazione familiare con lui e sentirsi accolti, accompagnati da Lui che, in quanto Padre, ci affida nelle braccia di una tenera madre, Maria-Chiesa.

Per questa ragione il progetto TeU propone Acerenza come topos, luogo sacro, santuario della leggerezza e della bellezza, al quale possano far riferimento tutti gli artisti del territorio lucano, perché sperimentino l’immersione nella spiritualità. Con questo progetto  Acerenza, grazie anche alla sua posizione elevata allarga l’orizzonte  umano e lo illumina di senso di speranza e di gioia.

Ma perché questa mia comunicazione non risulti enfatica ed autoreferenziale, vorrei offrire al mio paziente lettore due esempi concreti che la storia dell’arte e le neuroscienze  ci consegnano. Nel primo caso l’artista é Michelangelo, l’opera é il Mosè, i critici: l’autore stesso e Freud,  lo scenario é Roma. Nel secondo caso lo scenario é Firenze, l’opera d’arte, le Sibille di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, l’osservatore é Stendhal.

La leggenda vuole che al termine dell’opera Michelangelo trovasse il suo Mosé talmente perfetto che non resistette al desiderio di relazionarsi alla sua creatura che però rimaneva inerte e muta. L’autore sentendosene frustrato, in un irrefrenabile moto d’ira, le avrebbe scagliato contro il martello danneggiandola in maniera importante. Si tratta probabilmente di una leggenda, ma tutte le leggende nascondono un fondo di verità, «bugie vere» come le chiamava appunto Gioacchino da Fiore. Forse il Buonarroti aveva percepito con disagio che nonostante il suo impegno per riprodurre con la massima precisione tutti i dettagli di quel corpo egli non avesse saputo vincere l’inerzia della materia e dare leggerezza al peso della pietra.

In questo senso possiamo indicare in Michelangelo stesso il primo critico della sua opera. Egli stesso subisce  l’effetto catartico che l’opera d’arte induce in chi la osserva. Questa fenomenologia sarà poi indagata dalla psicanalisi e dalle neuroscienze.

Sta di fatto che, come la storia dell’arte ci racconta, l’artista riprese la sua opera e le dette maggiore dinamismo, un supplemento d’anima. Qualcuno sostiene che l’autore del Mosè  dovette riprendere la sua opera per adattarla alla location che nel frattempo era stata realizzata sottostimando le dimensioni della scultura michelangiolesca. A determinare una scelta possono concorre diverse esigenze dette appunto concause.

Freud il padre della psicanalisi, era a sua volta inibito, non riusciva ad avvicinarsi a Roma pur considerandola come topos dell’archeologia, immagine perfetta dell’inconscio dinamico dove sono seppelliti i fantasmi segreti della nostra storia personale. Ecco, nella psiche di Freud c’erano tracce mnestiche profonde, rimosse perché incoerenti e insopportabili alla sua coscienza. Eppure egli nutriva un vivissimo desiderio di visitare la città eterna come ineludibile bisogno di riappropriarsi pienamente di se stesso. Così dopo un lungo e faticoso lavoro di introspezione che lo condusse a pubblicare una delle sue opere più famose: «L’interpretazione dei sogni» egli sentì che poteva provare a forzare le proprie emozioni e visitare finalmente la città eterna. Una volta entrato nella Basilica di San Pietro in Vincoli  si sentì profondamente trasformato e davanti al Mosè fu guarito dalle proprie inibizioni tanto che impegnò diversi giorni di studio nel transetto della Basilica da cui trasse poi un celebre saggio sull’opera di Michelangelo. Questo testo di Freud ci offre l’opportunità di approfondire il senso più profondo della critica su un’opera di arte sacra in quanto rivela quando fosse titanico lo sforzo del leader religioso impegnato a mediare tra le tentazioni idolatriche del suo popolo e la forza cogente del Comandamento: «Non avrai altro Dio fuori che me».

 

Nel secondo caso mi limito a citare Stendhal che  nei suoi appunti di viaggio dal titolo “Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio” scrive: «Là, seduto su un gradino di un inginocchiatoio, la testa abbandonata sul pulpito, per poter guardare il soffitto, le Sibille del Volterrano mi hanno dato forse il piacere più vivo che mai mi abbia fatto la pittura. Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere».

La sindrome di Stendhal altrimenti detta «turismo dello spirito» testimonia  la profondità delle emozioni provocate dalle opere d’arte che Stendhal definisce come sensazioni celestiali e ci fa comprendere la forza evocativa della comunicazione artistica.  Penso che il Concilio Vaticano II, la lettera di Paolo VI agli artisti consiglino  agli animatori culturali di formazione cristiana ad entrare negli atelier degli artisti per ottimizzare la propria strategia di evangelizzazione. Non é dunque un cedimento all’enfatica celebrazione autoreferenziale  proporre l’opportunità o, per meglio dire, la vocazione di Acerenza e della sua Basilica Cattedrale  a proporsi come meta del «turismo dello spirito» nel cuore del mezzogiorno d’Italia.

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